Anno Domini 2020 (detto tutto!).
A proposito della mostra su Raffaello in corso a Roma (cascata assai male, con il virus in circolazione), tra il tanto che s’è scritto mi ha colpito un estratto dal catalogo della mostra di Palazzo Barberini nel quale sono messe a confronto due sue opere: una nota, l’altra meno. Quella nota non c’è bisogno di nominarla, l’altra sembrerebbe essere il ritratto di Pierluigi Farnese, figlio del cardinale Alessandro (che di lì a qualche anno cambierà nome, come papa, in Paolo III), di cui il catalogo dice: “Il pittore realizza in modo simile la testa, con una leggera torsione sul collo sodo e ci fa trapassare dallo sguardo acuto degli occhi scuri da cui emana una vitalità coinvolgente…(…)… Una chiarezza di materia e d’invenzione che vuole sottolineare la piena fisicità dei personaggi,…”.
Tutto bene, certo, ma trovo anche che tra i due ritratti vi sia una differenza che mi pare non da trascurare. Una differenza che chiamerei “di presenze” che deriva dalla diversità delle sollecitazioni visive che, così a me pare, condizionano l'atteggiamento dello spettatore-fruitore.
Come ci si atteggia di fronte ad un ritratto “tradizionale” nel quale l’artista rivela l’intenzione di restituirci le sembianze del soggetto? Nel quale, dai tratti somatici e oltre l’apparenza, vuole trasmettercene il carattere o il suo profilo psicologico?
Credo che la reazione più immediata, ma anche duratura sia quella di una “presenza” che si rivolge a noi svelando la propria identità e richiamandoci nel suo spazio. La Gioconda credo sia l’esempio più evidente del fenomeno: ci guarda, ci ospita e le brume di quel suo paesaggio avvolgono anche noi.
Direi che questo accada in maniera abbastanza evidente nel ritratto del presunto Pier Luigi Farnese: l’occhio del ragazzo è diretto all’occhio dello spettatore, il suo è uno sguardo indagatore e quella sua leggera smorfia denota una concentrazione di pensieri. Può essere che si stia chiedendo se accogliere o meno chi gli sta di fronte e che si appresti a chiederci chi siamo. In questo dialogo muto Raffaello rimane in posizione neutra: trasfigura un soggetto in presenza viva badando a farsi mediatore di una relazione diretta tra questo e l’osservatore. Terminato il lavoro lui stesso sarà osservatore al pari di chiunque altro.
Passiamo alla (presunta) Margherita Luti. Anche qui la relazione tra il soggetto e l’osservatore è diretta, ma – a mio vedere – si è invertito il verso. L'intenzione dell'artista non sembra essere quella di trasfigurare un soggetto interessante, ma una "persona" verosimilmente a lui assai vicina o comunque ben nota, al punto che appare comprensibile l’ipotesi diffusa che la ragazza altri non sia se non l’amante di Raffaello.
Questo approccio partecipato che Raffaello dedica alla Fornarina credo si riveli nella estrema attenzione con la quale è delineata la figura. I tratti somatici che ne sottolineano l’espressione sono nitidi, quasi calligrafici. Il suo occhio è fermo e vigile e tutti i dettagli a contorno sono fissati con precisione. Se la si mette a confronto con il ritratto precedente, si nota come lo spazio solido e uniforme che ospita la Fornarina differisca dall'atmosfera ariosa ed avvolgente che accoglie il Farnese e appaia appositamente predisposto per stagliarne nettamente i contorni, quasi a suggerire che la reale “presenza” che l'artista vuole comunicare e alla quale invita a riferirci non sia il soggetto del ritratto ma qualcosa d'altro, meglio: "qualcun altro".
Anche la Fornarina ci guarda, ma di uno sguardo neutrale: non richiama, né manifesta tensione emotiva; la sua espressione non ha quel tanto di mistero che rimandi ad una vita interiore. Non c’è indagine psicologica, né altro che ce ne sveli, in qualche modo, il carattere o la storia. Gli orpelli che la adornano hanno per lo più significati simbolici (hanno favorito vari studi iconografici) e tutta la figura si presenta come un’apparenza concreta, ma al tempo stesso non decifrabile, proprio come se Raffaello, anziché rappresentare il soggetto, avesse scelto di impegnare la propria sensibilità per manifestare un sentimento e un desiderio.
Con la Fornarina la relazione non è più diretta dal soggetto all’osservatore (con l’artista a svolgere la funzione di medium) bensì dall'osservatore al soggetto... nel mentre e nel tempo in cui quest'ultimo viene ritratto! Questa è l'alterazione che provoca l’inversione delle “presenze”. La Fornarina è semplicemente in posa in uno stato che non la vede come soggetto bensì come oggetto di un intenso esercizio visivo e probabilmente anche oggetto di desiderio. Il suo ritratto non restituisce apparenze somatiche, bensì la proiezione di ciò che in essa vede, di essa pensa e per essa sente Raffaello in persona.
La presenza che Raffaello ha riportato sulla tavola non è quella di una presunta Margherita Luti, ma la sua medesima: di lui stesso mentre le è di fronte, di ciò che prova, di lui che probabilmente (occhio alla retorica delle leggende!) la ama, intento a riempirsene gli occhi e la mente, a studiarla per poi rendercene un ritratto la cui neutrale e quasi fredda apparenza credo altro non sia se non il sipario che Raffaello ha deciso di aprire su di una storia di cui conferma l'esistenza, ma ne riserva il significato a due persone soltanto.
Due presenze diverse, quindi. Due momenti certamente frequenti nella storia di ogni artista dai quali neanche Raffaello è stato esente.
Se nel ritratto del Farnese il soggetto è di fronte a noi e ci interroga, nella Fornarina il “vero” soggetto è l'artista che ritrae, Raffaello Sanzio in persona che la contempla, quasi certamente interrogando se stesso.