(il riscontro morale dell’opera di un genio)
Cosa si prova di fronte all' opera del genio? Quali reazioni stimola ed ispira l' accostarsi ad un' "opera sublime"?
Sono domande vaste e vaghe e, peggio, generiche, ma non è il caso, qui, d’addentrarsi nel merito del portato etico e storico di quelli che universalmente sono additati come capolavori o nelle implicazioni semantiche legate alla loro percezione. Quello che qui interessa è precisamente il "primo impatto": l'attimo primo, cioé, nel quale il capolavoro, l' opera sublime, appare, si manifesta, investe e travolge con la sua grandezza.
E' difficile distinguere una qualsivoglia scala di priorità o sequenza temporale nella fruizione di una grande opera, soprattutto quando la mente e lo spirito siano disponibili ad accogliere tutto ciò che è espressione del genio. Ed è difficile recuperare un poco della distanza necessaria per dipanare quel meravigioso e convulso turbine di sensazioni ed emozioni che essa provoca, al fine di comprenderne, per quello ch’è dato, la misura ed il valore.
Questa sarebbe la ragione per cui chi abbia anima sensibile, prima che spirito analitico, adotta il metodo di abbandonarsi al corso degli eventi emotivi, lasciandosi prendere da ciò che, istante dopo istante, l' opera sublime rivela o allude. Abitudine ed esperienza insegnano che questo rimane il metodo migliore. In effetti la genialità creativa è tanto più affascinante quanto più riesce, gia' dal primissimo impatto, a trasmettere l'idea (non la misura, che sarebbe impossibile) del sublime che seguirà. Quell' idea che lo spirito analitico si preoccuperà poi di recuperare nei suoi significati, sviscerando (o forse svuotando) come la Scientifica sul luogo del delitto, quel che v'è da sviscerare (o da svuotare).
Tutte le discipline creative possono prestarsi ad un simile approccio. La musica ad esempio: l' immane soprassalto delle 4-5 note di attacco della Quinta Sinfonia di Beethoven, definita da qualcuno "Il Richiamo del Destino", o anche, più modestamente, l' inizio ritmato di "Imagine" di J.Lennon, che gia' dalle prime poche note adombra quel velo di mesta tristezza che ammanta tutti i sogni irrealizzabili. E le corali di Bach, la K525 di Mozart, e ancora e ancora…
Anche se con modi diversi, lo stesso vale per l' arte figurativa: accedendo al refettorio di S.Maria delle Grazie e procedendo verso la parete di fondo oppure salendo i 4-5 scalini d’entrata alla Cappella di Joos Vijd nella cattedrale di S.Bavone, a Gand, quando ancora ospitava il polittico dell' Agnello Mistico di Van Eyck. O ancora, spingere il portale di S.Maria della Steccata a Parma e percorrere, d’una sola occhiata, la volta dell' arcone absidale del Parmigianino.
Un elenco mai finito di capolavori della scultura, dell'architettura, dell' urbanistica, fors' anche della danza.
Ciò detto, tuttavia, la letteratura rimane l’espressione che meglio si presta a suggerire un presagio di grandezza sin dalle prime battute, derivare l’ “universale” già da un primo "particulare". La composizione letteraria, infatti, non necessita di traduzione dacché utilizza un codice già naturalmente "leggibile".
A voler sciorinare esempi non v’è che da scegliere: l'ironia già malinconica delle prime battute del Don Quixote ("Lettore mio, che non hai niente di meglio da fare,...."); oppure il pacato distacco dell' avvio degli sposi promessi ("Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno.."); oppure ancora .... beh, basta cosi' perche', fra i tanti, è ormai tempo di andare a quello che rappresenta l' esempio piu' lampante, immediato e geniale in assoluto: l'incipit straordinario di una autentica pietra miliare della letteratura che, pure nell' estrema sintesi (due sole parole), gia' appare allo spirito sensibile come denso di rivelazioni.
In quanti avranno letto "Moby Dick"?
C’è da chiederselo perché nell' infinità di persone che conoscono la storia della balena bianca sono assai meno coloro che ne hanno letto il libro. E' il caso tipico di opera che uccide l' autore: quasi chiunque conosce Moby Dick, ma Herman Melville, chi se lo ricordera' mai?
Ebbene, Moby Dick inizia cosi': "Chiamatemi Ismaele.".
Nient' altro. Poi parte il romanzo. Due parole. Ma quante cose riesce a comunicare Melville, con due sole parole!
Primo: il romanzo e' narrato in prima persona.
E' importante perché la storia coinvolgerà nel profondo: nella ragione come nell' inconscio ed è essenziale percepire la vicinanza, quasi la presenza fisica, del narratore.
Poi il solo nome di battesimo. Il narratore si e' presentato, ma non si e' rivelato. Ismaele potrebbe non essere il suo vero nome, ma saperlo è inutile. Può essere un nome inventato, convenzionale, e quasi certamente lo è. Ma è indifferente ai fini del racconto, anzi, è giusto sia così perché "Ismaele" non vuole esistere di per sé. Ismaele é in tutti, anzi: è tutti. Questo dovizioso narratore che mette chi lo ascolta a parte di una vicenda fantastica è in realtà la proiezione di quella parte che giace nel fondo dell' anima d'ognuno.
In quell' abisso d' ignoto e d' inconscio che ognuno si porta dentro senza mai riuscire a sondare e a disvelare completamente, vi è un Ismaele deciso, ansioso di imbarcarsi per una folle avventura.
E dal fondo di quell' abisso, dove riposano o sedimentano le ansie, le angosce e le paure di tutti i mortali disperatamente soggiogati da un destino arduo da decifrare, circoscrivere e combattere, puo' emergere il Leviatano, la terribile Balena Bianca che bisogna tentare di distruggere, pur temendola invincibile, per non esserne distrutti a propria volta.
Ma non è tutto. "Chiamatemi Ismaele" non si dà come semplice informazione circa un metodo narrativo o una convenuta generalità: è un messaggio, quasi un accorato ammonimento: chiamare questo evanescente Ismaele per ascoltare ciò che ha da dire lui, che ha vissuto momenti d' eroismo unici.
Chiamatemi Ismaele o, se non vi piace, chiamatemi come vi pare, ma.... "chiamatemi". Chiamatemi perché Ismaele siete voi, siamo noi, e Moby Dick è là che infesta i mari tempestosi della nostra anima atterrita. Chiamiamoci, par voler dire, parliamo una volta per tutte e senza infigimenti con noi stessi: Moby Dick è una minaccia latente, un presagio di morte, di distruzione, di dannazione finale senza appello, ma è anche macchina di giustizia, riscontro di dignità, per chi non teme di affrontarla.
Chiamatemi Ismaele.... chissa' se nelle intenzioni di Melville quel piccolo marinaio aveva davvero quel nome?
Nel romanzo appare all' inizio e poi, praticamente, si annulla nelle convulsioni della trama sino a scomparire del tutto allorquando - giunti che si è all' epilogo, alla tragedia finale - descrive l’ultimo, tremendo assalto della Balena Bianca piazzando una breve frase: "Un uomo cadde in mare e si disperse tra i flutti". Poi la catastrofe. Moby Dick, dopo aver travolto lance e marinai, si scaglia, con furia inusitata, contro il "Pequod", la incredibile baleniera del capitano Achab, squarciandola e mandandola a picco in pochi istanti ("Gran Dio! Dov'è la nave?") e con essa, tutto l' equipaggio. Solo allora, ormai alle ultime righe, Ismaele o comunque si chiami, ricompare spiegando di avere potuto raccontare quella storia, lui essendo il marinaio caduto, disperso e casualmente raccolto da una nave di passaggio, dopo tre giorni alla deriva.
Alla fine di queste considerazioni si può comprendere come quello stringato incipit renda appieno il senso di una silenziosa ma appassionata esortazione, secondo un modo di comunicare che, dopotutto, nella vita di tutti i giorni ricorre spesso, accertato che metafore, sottintesi ed allusioni sono frequenti nel dialogare quotidiano.
Così il sottile infingimento di Ismaele può applicarsi davvero a chiunque: a tutti coloro che sono, sono stati e, sperabilmente, saranno. Per come e per ciò che riusciranno ad essere adesso e dopo. Moby Dick, per quanto terribile, può essere combattuta e comunque deve essere affrontata: tanto basterà a scongiurare che l' esito finale sia catastrofico.
"L' uomo puo' essere ucciso, ma non vinto", fa dire Hemingway a Santiago, il protagonista del "Vecchio e il mare".
Uccidere quella parte che pesa e che talora fa troppo soffrire, ammesso che a tanto si debba arrivare, può essere drammatico ma salutare, se di questo gesto estremo non rimanesse che il ricordo di un periodo vissuto e da non rivivere, se una nuova forza rigeneratrice animasse in ognuno quell’anelito vitale per cui sentirsi intimamente e fermamente "vincenti".