“Ho la debolezza dello scrivere” dice Dino Buzzati in uno dei suoi racconti. Meglio: lo fa dire ad un personaggio di sua invenzione al quale spiritosamente si paragona.
Sappiamo bene di quale forza fosse quella sua debolezza che gli diede successo e fama (meritati, secondo me), ma altrettanto sappiamo che molti sono i “deboli” che ci provano, si cimentano, si impegnano senza raggiungere quelle vette che, per essere foriere di successo e fama, sono fatalmente riservate a pochi.
Quel che segue è l’esito delle debolezze del titolare del sito il quale, tuttavia, alle vette della fama non fa nulla per avvicinarsi, contentandosi di guardarle sempre da lontano. Un sentito “grazie” per coloro che si provassero a leggere almeno uno degli scritti che qui troveranno e tanta solidale amicizia per coloro che arriveranno sino in fondo.
La casa che Anton andò, per così dire, ad abitare versava in condizioni di abbandono.
A chi frequentava Anton, gli voleva bene, si serviva della sua opera, non riuscì facile immaginarlo in una casa tutta sua: lui non aveva mai avuto una casa e nemmeno… no, no: andiamo con ordine. Per parlare di Anton bisogna prima dire un paio di cose su di lui.
Io non l’ho conosciuto di persona: ho saputo di lui grazie al breve racconto che gli dedicò Stefan (*) che lo incontrò quando visse per qualche tempo nella cittadina in cui anche Anton viveva.
Anton era un giovane vagabondo, intelligente ed abile in tante mansioni. Si guadagnava da vivere girando per la città, attento a ciò che richiedesse manutenzioni o riparazioni. Rilevava e segnalava e non gli sfuggiva nulla: una tegola o una grondaia rotta, alberi o siepi da potare, recinti malandati, muretti sbrecciati. O anche mezzi e attrezzi da revisionare, rinnovare, riadattare. Anton sapeva fare di tutto e bene e quasi sempre il lavoro era affidato a lui. Spesso non doveva neppure cercarselo, il lavoro: passandosi la parola i cittadini lo rintracciavano e lo indirizzavano là dove c’era bisogno che intervenisse. Non aveva tariffe: chiedeva quel che gli bastava per sostentarsi quel giorno o al più il giorno dopo. Se aveva già guadagnato, non accettava nulla. Non aveva fissa dimora, ma in ogni tavola c’era un posto a lui riservato, in ogni casa un letto perché vi potesse dormire, solo che lo chiedesse. Nel suo originale sistema di vita Anton faceva moneta sonante dell’altruismo, confidando in quel sottostrato di bontà presente nel profondo di quasi tutti gli umani e pronto a riemergere, se ben sollecitato.
Poi Stefan lasciò quella città e di Anton non scrisse altro. Di lui non si seppe più nulla, ma quel poco che ne avevo letto bastò perché di questo individuo così unico mi restasse, assieme al ricordo, il desiderio di sapere se, negli anni seguiti a quell’incontro, avrebbe finito per cambiar vita, se il suo sistema avrebbe retto al mutare dei costumi e delle generazioni. Anton sarebbe diventato calcolatore, disincantato, forse cinico? Ipotesi e supposizioni se ne possono fare, tutte più o meno valide: quella che segue è la mia idea sugli sviluppi possibili e gli esiti probabili della sua storia.
La società, la città, le nuove usanze ci rendono diversi: nel tempo, le cose si trasformano, passano e accadono. Poteva quindi accadere che in quella cittadina qualcuno salisse al Cielo senza lasciare eredi e l’autorità comunale deliberasse di assegnare la sua casetta, rimasta abbandonata e vuota, a quel vagabondo che tanto dava e quasi niente chiedeva!... Come l’avrebbe presa Anton? Come avrebbe inciso sulla sua vita la disponibilità, anzi la “proprietà” di un alloggio?... Se ne ho capito qualcosa, mi figuro un Anton che, trovatosi inaspettatamente tra le mura di una casa tutta sua, si senta quantomeno strano, dibattuto tra dubbi e incertezze non tanto semplici da risolvere…
Ovvero: come spiegare la propria condotta senza per questo volerla giustificare
Se potessi o dovessi scegliere di trasmutarmi in un animale che mi rappresenti appieno per come vorrei essere, fare, pensare o comportarmi; per ciò che vorrei gli altri in me riconoscessero, ammirassero, invidiassero o temessero; per tutto ciò che esprime grandezza, evoluzione, elevazione e sublimazione; per tutto ciò che è bellezza, coraggio, audacia, prestanza, forza ... ebbene vorrei essere precisamente - l'ho sempre detto - uno splendido, lucido, elegante, agile, possente e temerario Giaguaro.
Il Giaguaro!.... È il felino più forte, impavido, indomabile, instancabile, astuto e dotato. Più delle tigri, più dei leoni, più dei leopardi o dei puma,.... è il predatore principe, quello a cui le imprese di caccia più ardite, complicate e pericolose riescono con naturalezza, senza che mai, o quasi mai, egli debba dare fondo alle sue immense potenzialità.
È il solo che non tema di vedersela con caimani e anaconda, che osi affrontarli direttamente nel loro stesso territorio e che, forse non sempre, ma sicuramente il più delle volte, ne esca vincitore.
Nel Centro e nel Sud America lo chiamano "il gatto che uccide con un balzo" perché la vittima prescelta dal Giaguaro difficilmente lo impegna nello sforzo di un secondo assalto: il suo primo balzo è già quello fatale.
Il Giaguaro è l' animale che meglio simboleggia l' identità che nella vita avrei voluto affermare ma che la prova dei fatti, in modo lampante, dimostrò che mai avrei potuto raggiungere.
Le aspirazioni sono legittime e legittimamente riconosciute a ciascuno di noi. Chiunque ha il diritto di aspirare a qualcosa. O almeno di sognare. La realtà della vita, invece, soprattutto quella alla quale debbo la mia formazione, non mi ha mai visto primeggiare per particolari doti di ferrea volontà, voglia di vincere o determinazione; mai mi vide affrontare e travolgere gli ostacoli e le difficoltà con la fiera consapevolezza della superiorità dei miei mezzi; mai assistette ad alcuna mia azione che meritasse l'appellativo di eroica o eclatante.... A dirla breve, caro lettore, il mondo, con chi scrive, annovera qualcosa di ben diverso dallo splendido e mirabile predatore maculato; qualcosa che, lungi dall' avventurarsi vincente tra le foreste della vita, si è collocato assai più in basso nella gerarchia delle nobili fiere, non andando oltre dall' essere – per simbolica analogia – niente più di un modesto, normalissimo gatto.
Niente di più o di meglio: a questo e a nient'altro m'è riuscito di arrivare.
Un semplice, pigro, morbido, sfuggente ed innocuo gatto. Un animale del quale intenerisce la placida indolenza e diverte la buffa vivacità, ma al quale pochi perdonano l'opportunismo (in fondo veniale) o quel tratto sommesso di ambiguità (in fondo lieve).