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  “Ho la debolezza dello scrivere” dice Dino Buzzati in uno dei suoi racconti. Meglio: lo fa dire ad un personaggio di sua invenzione al quale spiritosamente si paragona. 

  Sappiamo bene di quale forza fosse quella sua debolezza che gli diede successo e fama (meritati, secondo me), ma altrettanto sappiamo che molti sono i “deboli” che ci provano, si cimentano, si impegnano  senza raggiungere quelle vette che, per essere foriere di successo e fama, sono fatalmente riservate a pochi. 

  Quel che segue è l’esito delle debolezze del titolare del sito il quale, tuttavia, alle vette della fama non fa nulla per avvicinarsi, contentandosi di guardarle sempre da lontano.  Un sentito “grazie” per coloro che si provassero a leggere almeno uno degli scritti che qui troveranno e tanta solidale amicizia per coloro che arriveranno sino in fondo.

 

  Stavo pensando.

  Stavo pensando alla Morte... si, proprio alla Morte ma, come dire? Non proprio alla Morte come distacco dall’esistenza biologica, come evento inesorabile e definitivo, come passaggio ad una dimensione inconcepibile per le nostre provate menti, come stato a luogo dove non vi sia distinzione tra il Nulla e l’ Eterno …insomma, non stavo pensando alla Morte come al momento estremo e comunque terrifico con il quale prima o poi ci toccherà far i conti….  no: pensavo alla Morte semplicemente come ad uno dei tanti eventi che si susseguono nel ciclo naturale delle cose.

  La pensavo così, perché, vista da questo angolo, mi sembra che essa, la Morte, perda molto della sua componente drammatica: mi sembra, anzi, di poterla considerare il compendio e il complemento naturale della vita.

  Non ci sarebbe vita se non ci fosse Morte. La vita è azione e perpetuazione dell’ agire: quale vita, quale perpetuazione vi sarebbe se non vi fosse anche la fine, la Morte? Quella Morte per mezzo della quale gli esseri umani si consegnano l’un l’altro il testimone affinchè l’Umanità tutta prosegua nel suo cammino?

  Accettiamo pure che la Morte sia un passo doloroso e tragico per coloro che ne sono raggiunti (ma non sempre è così: talvolta essa è desiderata, attesa, cercata, liberatoria), ma pensiamo anche che, nel bene o nel male, ciò che ogni individuo crea, costruisce, agisce o provoca nel corso della propria esistenza contribuisce, sia pure a diverse misure, a perpetuare la vita e l’esistenza per coloro che, nascendo, ne sostituiranno la presenza sul pianeta. 

  Laddove abbiano forma e luogo gli esiti del patrimonio spirituale, la forma concreta del pensiero, la pragmatica sostanza dell' idea o il vago errare del sogno, insomma, ovunque vi sia asserzione di vita, l' esistenza della Morte risulta inevitabilmente avallata.

  Il nascere e il morire - gli eventi entro i quali si compie il corso della vita - si trovano in eterna e costante relazione: del primo si acquisisce coscienza ben dopo ch'e' avvenuto e quanto al  secondo, come fatto compiuto, e' destinato a risiedere nel mistero, ma se il primo evento, giorno dopo giorno, si allontana, l' altro si avvicina ineluttabile e, piacciano o meno questi discorsi,  e' indubbio che la convivenza con la Morte finisca per divenire un abito usuale.

  Benche' l'idea della Morte sia portatrice di sgomento (e certamente a noi, persone normali, poco inclini alle complesse meditazioni sull' eterno che, se non preservano dall' ora fatale, almeno ne leniscono l' opprimenza), la vediamo tuttavia comparire assai di frequente nel nostro quotidiano senza che per questo la nostra attenzione ne sia particolarmente scalfita. Sono innumerevoli le occasioni nelle quali ci si imbatte nella Morte in maniera del tutto neutra, senza che essa sia causa di traumi allo scorrere indifferente della giornata: quante volte, più o meno consciamente, essa ricorre nei nostri pensieri, o discorsi, come uno dei tanti sostantivi del quale ci serviamo riservando ad ognuno lo stesso, indifferente grado di attenzione?.

  La Morte ricorre negli intimi pensieri come nei discorsi di famiglia, tra amici o al lavoro, nelle notizie sentite o lette, al cinema o a teatro, negli scritti di qualunque genere: siano essi di scienza o di letteratura, saggi o trattati, quotidiani o periodici… essa non affranca neppure gli impersonali prodotti della burocrazia: documenti legali, assicurativi, certificativi o notarili, ed è notevole considerare che questa sua onnipresenza è indipendente da quello che può essere lo stato d’animo, la mansione o la condizione del momento: ci si può sentire lieti o tristi, entusiasti o depressi, concentrati o disimpegnati, seriosi o faceti: si nominerà la Morte, la si sentirà nominare, se ne scriverà, ci si rifletterà, ci si riferirà,  mantenendo comunque la mente e la coscienza ben lontane dall’ immane mistero che la Morte reca con sé. Ed e' giusto sia così, perchè gli avvenimenti premono e le trame dell’esistere incalzano.

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  Destinataria: Cristina C., un’amica/allieva in crisi relazionale.

  Quando: anno 2013, fine inverno o inizio primavera.

  Giornata faticosa, quella di oggi. Prima la Scuola e una chiassata con il Direttore (sono arcistufo della situazione), poi le sue scuse e la promessa di nuovi cavalletti (vedremo), poi a casa a sbrigar faccende domestiche e infine di nuovo fuori ad accompagnar persone a conferenze e visite (qui mi è andata meglio perché non son venute certe persone che mi interessavano poco, ma ne sono venute altre che si sono rivelate interessanti), infine il ritorno a casa, tardi e senza più benzina. 

  Così per cercare di capire il momento che sta vivendo la cara C. ho ascoltato 2-3 volte, in cuffia, una canzone che, se anche non mette di buon umore, dà comunque la carica. E’ un motivo degli anni ’60, interpretato da Petula Clark e si intitola “Downtown”. Ebbe anche una orribile traduzione in italiano, ma in originale è bello, sia come musica che come testo:

 “When you're alone and life is making you lonely /

You can always go / Downtown/

When you've got worries, all the noise and the hurry /

Seems to help, I know / Downtown/

Just listen to the music of the traffic in the city /

Linger on the sidewalk where the neon signs are pretty /

How can you lose?.....” .

  E’ un richiamo alla vita, alla fiducia, a una ritrovata voglia di vivere che i luoghi più vivi della città (downtown) possono risvegliare solo che ci si vada con la mente predisposta ad accoglierne gli stimoli.

  La città, in questo caso rappresenta la vita in tutte le sue pieghe e varianti, in tutte le situazioni e le opportunità.

  E’ degli anni ’60 questo brano, e si sente: la città, specie oggi, non è poi così accogliente e Milano non è certo Times Square (difatti è a New York o a Los Angeles o a S.Francisco che questo brano può essere ancora oggi riferito)…..

  Vabbè….  Hanno definito la donna “l’altra metà del cielo”…. Bella definizione! Poetica! Di sicuro effetto. E ambigua quanto basta. Si, perché contiene una clamorosa commistione, di certo voluta, che se non correttamente intesa può comportare gravi confusioni  perché combina due grandezze incompatibili quali “la metà”, che indica un limite di grandezza finito e “il cielo” che, altro non essendo che l’universo, ha dimensione infinita. 

  Hai mai pensato che un infinito è, per dimensione, uguale a due infiniti (o a tre, a quattro, a “n”)?? Se ci pensi  vedrai che la famosa definizione va riveduta: la donna è la “metà” di un infinito e cioè è infinita “come l’altra metà”, cavolo!!! 

  Comprendo e accetto tutte le tue ansie, incertezze, attese, delusioni, fragilità, disperazioni; tutti i tuoi dubbi, le domande e le risposte che ti dai e non giudico se sia giusto autocaricarsi di tante tensioni e speranze:  chi sono mai, io, per dirti “fai così” o “fai cosà”? In analoga situazione, io per il primo non vorrei avere attorno profeti che mi svelino le verità che io non saprei vedere o cogliere: così mi rimangono solo domande: mica tante, anzi, una sola. E voglio rivolgertela.

  Vedo bene che da ogni parola che scrivi, da ogni virgola o puntino traspare, meglio: grida un fragoroso bisogno, una richiesta, anche disperata, di una presenza, di un appoggio, di un sostegno che siano le conseguenze e che abbiano le implicazioni di un affetto (l’ “ammore” lasciamolo stare per ora) e non ti biasimo di certo. Chi non avrebbe la stessa necessità?

  E tuttavia vedo anche una carenza mica tanto veniale: non una  colpa, forse una dimenticanza.

  Dimentichi forse che chi ti cerca (e ti hanno cercato in tanti e tanti ti cercheranno, sennò mica eravamo a questo punto!) a sua volta porta con se “le stesse tue necessità”? Non pensi che chi ti si lega, oltre a “papparsi” un notevole “piezz’ ‘e fimmena”, lo fa anche perché trova modo di appagarle, queste necessità? E proprio con la tua presenza?? Rifletti e convinciti che non sei solo tu ad aver bisogno di qualcuno, ma è anche il “qualcuno” che ha bisogno di te.

  Sembra invece che quando trovi un apparente appagamento nella vicinanza di un possibile compagno, ti senta immediatamente in debito con il “candidato” che questo appagamento ti dà! E temi di non saper ripagare, dubiti se sarai mai all’altezza, se vali davvero qualcosa, se mai sarai degna dell’attenzione del… (fai tu il nome) di turno.  Non so se sia davvero così e magari mi dirai che sbaglio e può essere, ma ti assicuro che da fuori è questa l’impressione che se ne riceve.  

  Guarda che a nessun “moscone”, in fondo, piace avere accanto una fanciulla “riconoscente”, arrendevole o  che gli riconosca una prevalenza  per il solo fatto che “egli c’è”.  Piuttosto la tiranna; meglio ancora il premio da inseguire, da conquistare, per cui lottare…  è di questo che si ha bisogno: l’altra persona cerca quello che cerchi tu e tu non devi ad essa null’altro che quello che sei, vorrei dire “nel bene e nel male”.

  Di certo non sei in una condizione di debolezza più di quanto non lo sia l’ “altro” e di questo devi diventare totalmente cosciente se vorrai vivere davvero un rapporto “da pari a pari”.

  Chiudo qui perché vedo che ho scritto un romanzo. Chissà se arriverai a leggere tutto. Ma se arrivi sino a qui ricorda che non sei  solo “metà”: sei soprattutto “cielo”.

  Un abbraccio.

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