Che ne siano consapevoli o meno, quando gli artisti di tendenze figurative attendono alla loro opera, quale ne sia il soggetto si trovano invariabilmente a dirimere il problema di dare un senso allo spazio.
Nell’arte figurativa lo spazio assume valenze che vanno oltre la comunque basilare funzione di “contenere” il/i soggetto/i: in breve, possiamo dire che lo spazio di un’opera d’arte è il luogo in cui si sono concentrati le idee e i pensieri, i progetti e i ripensamenti, le azioni istintive e i dettati razionali, nonché quant’altro abbia mosso la mano dell’artista. In altri termini: nella dimensione spaziale della propria opera l’ artista dichiara l’agire del tempo.
Disquisire di “dimensione spaziale” in arte solleva memorie le più varie e diverse.
Nel caso che segue sono riportate tre opere di J.W.M. Turner aventi il medesimo soggetto visto e ripreso dalla medesima postazione.
Si tratta di tre delle sue note vedute del Castello di Norham nelle quali (occhio alle date), dalla prima all’ultima versione, si viene materializzando una spazialità sempre più estesa che finisce per travalicare i limiti fisici della tela.
Andando subito all’ultima appare evidente l’intenzione di portare lo spettatore oltre il dato reale, in una dimensione complementare non strettamente dipendente dalla riconoscibilità dei soggetti (i critici d’oggi parlerebbero di “dimensione altra”… bah!).
Come c’è riuscito? Beh, io credo che il segreto stia nel ribaltamento del rapporto forma-colore.
Spiego. Nell’arte figurativa, di solito, l’opera si definisce attraverso la forma, o meglio, sulla composizione di forme sulla quale viene imbastito il progetto coloristico che talvolta la sovrasta (e.g. pensiamo alla “Città” di Boccioni), ma è dalla forma che si parte e a sostenerla è ancora la struttura compositiva.
Anche Turner, credo, avrà iniziato così, ma poi deve aver pensato che “riempiendo” di colore la forma, avrebbe creato uno spazio ancora “descrittivo”, ordinato ma sequenziale per quanto riguarda il processo di fruizione. L’attenzione e la fantasia di chi guarda sarebbero state guidate selettivamente dagli elementi della scena: acqua, roccia, fiume, animali, castello… una visione di ampio respiro, ma pur sempre una “scena”: legata quindi alla leggibilità dei contenuti.
Era perciò necessario costruire la forma in modo diverso e per farlo Turner è ripartito dagli strumenti della pittura. Deve aver pensato che colore, tono, gesto, materia avrebbero dovuto superare le imposizioni del disegno, gli schemi rigidi e le strutture complesse date dalla “nozione”. La forma doveva nascere dal colore, o meglio, dagli strumenti primari della pittura.
Ecco quindi che, nell’ultima versione, il castello rimane riconoscibile (svolge ancora la sua funzione di “soggetto”), ma è fatto di pochi tocchi a vari toni di azzurro che degradano proseguendo fin nel riflesso dell’acqua. Il sole in controluce è una macchia di giallo schiarito di materia densa e grumosa, tirata con colpi dati a raggera.
Le sponde del fiume che si rispecchiano nell’acqua sono ridotte a tratti di vari toni di marrone, ocra, giallino, stesi quasi tutti in verticale laddove l’acqua, di un grigio-azzurro pallidissimo, segue naturalmente il verso orizzontale. Le sole varianti, indispensabili per creare una dinamica sia luministica che pittorica, sono i riflessi di luce sull’acqua: a sinistra stesura piena, tocchi decisi ad andamento orizzontale (la luce naturale incide con maggiore intensità); a destra stesure più leggere, tendenzialmente verticali (la luce è smorzata dai rilievi montuosi accennati da un azzurrino pallido, quasi uniforme.
Insomma: abbiamo un paesaggio ricostruito con i metodi e le modalità di un quadro astratto, dove tutto si accorda come in un sistema, ossia un insieme di parti collegate le une alle altre. Se si dividesse la superficie in tanti piccoli riquadri, si vedrebbe che ognuno di essi è complementare a quelli che lo circondano, così che l’insieme risulti in un moto meccanico unitario e complesso, una dinamica discreta e totale.
E’ evidente che questo quadro, a differenza di quelli che lo hanno preceduto, non è “fermo”, non riduce lo spazio ad una breve visione, bensì suggerisce come una fuga “nel tempo” che non è solo dello sguardo, ma soprattutto del pensiero.
E così che J.W.M.Turner, ricostruendo la forma attraverso un processo nel quale la pittura è pensata come valore in sé (i critici di cui sopra direbbero “ontologico”), riesce a rivelare uno spazio che non è più solo fisico, ma trascendente, proiettato nel tempo.
Nella estrema modernità che il quadro rivela, iI soggetto non è più il tema, bensì il pretesto e la pittura, liberata da complementi esterni e da dipendenze estranee, è pensata non più come il mezzo, ma ormai come il fine.