La casa che Anton andò, per così dire, ad abitare versava in condizioni di abbandono.
A chi frequentava Anton, gli voleva bene, si serviva della sua opera, non riuscì facile immaginarlo in una casa tutta sua: lui non aveva mai avuto una casa e nemmeno… no, no: andiamo con ordine. Per parlare di Anton bisogna prima dire un paio di cose su di lui.
Io non l’ho conosciuto di persona: ho saputo di lui grazie al breve racconto che gli dedicò Stefan (*) che lo incontrò quando visse per qualche tempo nella cittadina in cui anche Anton viveva.
Anton era un giovane vagabondo, intelligente ed abile in tante mansioni. Si guadagnava da vivere girando per la città, attento a ciò che richiedesse manutenzioni o riparazioni. Rilevava e segnalava e non gli sfuggiva nulla: una tegola o una grondaia rotta, alberi o siepi da potare, recinti malandati, muretti sbrecciati. O anche mezzi e attrezzi da revisionare, rinnovare, riadattare. Anton sapeva fare di tutto e bene e quasi sempre il lavoro era affidato a lui. Spesso non doveva neppure cercarselo, il lavoro: passandosi la parola i cittadini lo rintracciavano e lo indirizzavano là dove c’era bisogno che intervenisse. Non aveva tariffe: chiedeva quel che gli bastava per sostentarsi quel giorno o al più il giorno dopo. Se aveva già guadagnato, non accettava nulla. Non aveva fissa dimora, ma in ogni tavola c’era un posto a lui riservato, in ogni casa un letto perché vi potesse dormire, solo che lo chiedesse. Nel suo originale sistema di vita Anton faceva moneta sonante dell’altruismo, confidando in quel sottostrato di bontà presente nel profondo di quasi tutti gli umani e pronto a riemergere, se ben sollecitato.
Poi Stefan lasciò quella città e di Anton non scrisse altro. Di lui non si seppe più nulla, ma quel poco che ne avevo letto bastò perché di questo individuo così unico mi restasse, assieme al ricordo, il desiderio di sapere se, negli anni seguiti a quell’incontro, avrebbe finito per cambiar vita, se il suo sistema avrebbe retto al mutare dei costumi e delle generazioni. Anton sarebbe diventato calcolatore, disincantato, forse cinico? Ipotesi e supposizioni se ne possono fare, tutte più o meno valide: quella che segue è la mia idea sugli sviluppi possibili e gli esiti probabili della sua storia.
La società, la città, le nuove usanze ci rendono diversi: nel tempo, le cose si trasformano, passano e accadono. Poteva quindi accadere che in quella cittadina qualcuno salisse al Cielo senza lasciare eredi e l’autorità comunale deliberasse di assegnare la sua casetta, rimasta abbandonata e vuota, a quel vagabondo che tanto dava e quasi niente chiedeva!... Come l’avrebbe presa Anton? Come avrebbe inciso sulla sua vita la disponibilità, anzi la “proprietà” di un alloggio?... Se ne ho capito qualcosa, mi figuro un Anton che, trovatosi inaspettatamente tra le mura di una casa tutta sua, si senta quantomeno strano, dibattuto tra dubbi e incertezze non tanto semplici da risolvere…
Dopo quasi vent’anni di vita errabonda Anton, titubante, si aggira tra stanzette bisognose di risanamenti provando a sentirsi “proprietario”: per uno come lui, cui una sacca bastava a contenere ogni avere, era difficile calarsi nel ruolo. Sino ad allora le sue capacità, le relazioni con i suoi concittadini e la loro gratitudine erano il patrimonio sul quale non invano aveva confidato senza sentirsi privato di nulla. Ora però la prospettiva di vivere da solo, tra quelle pareti non ancora domestiche, escluso da quei contatti, da quel calore a cui la pronta accoglienza e la buona predisposizione degli altri lo avevano abituato, gli insinuava il presentimento di una mancanza oltremodo greve da sostenere, di un vuoto non facile da colmare… Sì: poteva andare e venire, accomodarsi, riposare a volontà, ma le non poche cose indispensabili per rendere anche solo vivibile una casa vuota già lo disorientavano. Non sarebbe stato difficile procurarsi degli arredi: tanti avrebbero avuto cose di cui disfarsi e lo avrebbero aiutato di certo, ma chiedendo senza dare gli pareva di erodere quel credito di gratitudine che si era guadagnato e che era la sola cosa a cui tenesse. E poi, quando quegli spazi fossero stati riempiti, pure con le sue modeste abitudini avrebbe dovuto spendervi tempo e riguardi a tutto scapito della dedizione che riservava alla comunità e del sereno equilibrio sul quale adagiava la sua esistenza!... Lui, che di conflitti e gravami interiori non aveva mai sofferto, sentiva ora crescere dentro di sé qualcosa di ignoto ed inquietante, la presenza sorda di un ingombro che non avrebbe potuto restare irrisolto.
Si faceva sera. Con le idee in subbuglio Anton si accomodò alla meglio su di una vecchia cassapanca abbandonata lì, servendosi della sua sacca come cuscino.
Al sorgere del sole, ancora confuso e con l’animo non del tutto confidente, stabilì che per quel giorno avrebbe girato la città secondo le abitudini, guardando e osservando, pronto a rilevare ciò che richiedesse la sua opera. Tra le vie e le strade a lui familiari gli parve di ritrovare fiducia e credette di aver recuperato la consueta armonia. Presto però si rese conto che non sarebbe riuscito a gestire la giornata secondo le sue intenzioni. Coloro che incontrava si dicevano lieti di saperlo sistemato e disponibili a donargli il necessario per la sua casa: mobili, suppellettili, vasellame,…! Erano anzi pronti a recapitargli tutto subito. Anton rispondeva con esitanti sorrisi, con imbarazzati ringraziamenti, cercava di prendere tempo adducendo pretesti: doveva fare pulizia, ordine, poi nonappena… La sua impreparazione alla nuova realtà fu ben compresa, ma quella gara di riconoscenza riuscì a confonderlo ancora di più. Continuò il suo percorso ancora per un po’, ma non era nella quieta disposizione di spirito che la sua diligenza richiedeva. Capiva che avrebbe dovuto ridefinire, forse persino ricostruire il suo rapporto con la comunità, ma non si figurava come avrebbe potuto, senza compromettere ciò che per lui ne rappresentava il valore.
Gli interrogativi che la sua nuova situazione presentava erano estranei a quelli che erano sempre stati i suoi principi. Girovagò ancora un poco, ma la sua attenzione era ormai distolta. A sera non accettò i ricoveri che gli furono offerti, preferendo ancora la cassapanca e la sacca per cuscino.
L’indomani, pensando che ozio e solitudine non gli avrebbero portato consiglio decise che avrebbe ripreso la sua missione di solidale vigilanza, contando che l’interessamento per quella casa sarebbe presto scemato. Ma non poteva proprio evitare che i suoi concittadini, sia pure con amichevole zelo, gli chiedessero se fosse tutto a posto, se gli mancasse qualcosa, come ci si trovasse… Anton cercava di mantenere la pacata disinvoltura di sempre, di ritornare sui malfunzionamenti rilevati e sulle riparazioni da eseguire, ma la casa, la sua casa, sembrava urgere negli interessi (e forse nella curiosità) dei suoi concittadini più del guasto da riparare. Tanta sollecitudine lo incalzò anche nei due giorni successivi e sempre più ad Anton pareva di scorgere, in chi incontrava, non già la fiduciosa attesa di una risposta bensì, quantunque priva di malizia, una latente, inespressa domanda: proprietario di casa, con le conseguenze pratiche di questa elementare condizione, sarebbe stato l’Anton di sempre, ben disposto e disinteressato?… Pur provandosi a negarlo, dovette infine accettare che nella benevola rete di relazioni che lo legava alla città qualcosa era subentrato: niente più che l’accenno di un pensiero inespresso, sicuramente innocuo, ma tale da rendere inquieto uno spirito limpido come il suo. Avvertiva in tutti la convinzione che il suo nuovo stato lo avrebbe reso diverso, certo non meno generoso e sollecito, ma fatalmente soggetto agli obblighi e ai doveri ai quali essi stessi quotidianamente soggiacevano e provvedevano. Anton conosceva gli inderogabili paradigmi e gli effetti del vivere civile: sussistenza, convivenza, denaro, futuro, famiglia e figli per chi ne aveva, perciò rifuggiva dal possesso di un qualsivoglia bene, temendo che le solerzie e le responsabilità connesse avrebbero insidiato e forse depresso la sua migliore natura. Era una scelta che comportava rinunce, lo sapeva, ma che pure lo faceva sentire libero. La sua idea era che nel civile contesto, ma anche fuori da esso, la libertà è una condizione che nasce dalle rinunce piuttosto che dalle conquiste. Non si misura da ciò che si è riusciti ad ottenere, bensì da ciò a cui si è preferito rinunciare per non vanificare la nostra naturale vocazione: le ambizioni indotte o improprie, i desideri effimeri, improbabili o irraggiungibili.
Di ambizioni e desideri Anton non ne aveva, o meglio, ne aveva ma gli erano appagati dal sentirsi in sintonia con la sua natura. Adesso però che la nuova realtà gli imponeva bisogni di cui prima non avrebbe sentito la mancanza, capiva quanto la libertà sia vulnerabile anche alle necessità e come le scelte di vita da lui condotte con placida leggerezza, richiedessero in verità un rigore ed una determinazione non comuni.
Sacca e cassapanca furono ancora il suo giaciglio per quella notte ed anche per la notte dopo.
Il terzo giorno Anton non si sentì di lavorare. Rimase nella casa per l’intera giornata aggirandosi tra quelle camere poco vissute e mai abitate, calato in riflessioni infruttuose. Volgendo l’occhio tutt’attorno cercava ispirazioni per risolvere le incertezze che lo stringevano. Si figurò le stanzette allestite e pronte ad accoglierlo: lì ci sarebbero stati il tavolo e le sedie, là una credenza, di là letto e armadio. Era poi noto a tutti che lui non possedeva nulla, perciò lo avrebbero provvisto di attrezzi da cucina, mastelli e scope, tovaglie, coperte, oggetti da toeletta e magari altri abiti, cappotti, camicie, scarpe… e mentre l’immagine di sé in quel nuovo stato gli si definiva sempre più nitida, nella sua mente i dubbi si concentravano in nebbie sempre più dense. La gestione di una casa, per quanto frugale, è fatta di incombenze ed occorrenze di fronte alle quali Anton era sguarnito più ancora dei locali che si apprestava ad abitare. Continuò a lungo a considerare, analizzare e soppesare alternative e alla fine si riscosse: se voleva restare l’Anton che era sempre stato, perché rigettare la logica piana dell’unica soluzione giusta?... Infatti.
Di nuovo sacca e cassapanca per la notte, ma la storia si sarebbe chiusa: ora la sua mente era sgombra e la serenità tornava a balenare. Si addormentò facilmente e al mattino era pronto.
Ristette qualche momento per assicurarsi di essere nello spirito di sempre e senza affrettarsi si incamminò, questa volta non senza meta. Andò subito dai suoi benefattori e li pregò di restargli in parola ancora per un giorno o due: li avrebbe avvisati lui. Quindi si diresse verso una zona esterna al circondario cittadino, fuori dai suoi percorsi ma a lui nota perché proprio da là lui veniva.
Erano luoghi dove vanamente avrebbe cercato grondaie da riparare o giardini da accudire: l’indigenza che vi allignava richiedeva semmai che si desse riparo alle esistenze di coloro che là stavano, dei nati poveri, di coloro a cui disgrazie ed avversità avevano compromesso le speranze o reso precario il quotidiano. Anton vi era cresciuto e con la sua mente attiva si era ingegnato ad imparare tanti mestieri: aveva imparato a fare e a fare imparando ed oggi poteva contare su una sua piccola, ma sicura onniscienza. Si considerava privilegiato per la felice propensione che la Natura o Chi altro gli aveva concesso: grazie ad essa aveva accumulato infiniti crediti nelle coscienze della sua gente alla quale, con naturalezza e senza distinzioni o pregiudizi, dava il massimo del proprio impegno chiedendo il minimo per il proprio bisogno. Ora, si disse, era stato ancora più favorito perché poteva fare qualcosa di veramente importante per i meno fortunati. Conosceva appunto una piccola famiglia colpita da eventi che l’avevano luttuosamente spossata: tre ragazzi rimasti prematuramente orfani, accuditi alla meglio dal nonno materno ancora valido, ma i cui acciacchi pregiudicavano la piena attività di un tempo. Il minore dei tre era ancora bambino, i due maggiori un po’ più che adolescenti, ma non ancora prossimi alla maggiore età. L’assiduità caritatevole dei vicini suppliva nel possibile alla carenza di attenzioni e cure.
A dispetto di una situazione scoraggiante, i due grandicelli si sforzavano di mantenere una solida dirittura. Qualsiasi lavoro, foss’anche umile o faticoso, purché sostenibile dalle loro forze, era bene accetto e vi profondevano impegno e dedizione, volendosi rinomare per abili e coscienziosi.
Si prendevano cura del fratello minore, il più svantaggiato dall’assenza di genitori, ed ancora si adoperavano a che il nonno non si sentisse inadeguato all’improbo compito cui la sorte lo costringeva. Le pesanti avversità non avevano, insomma, intaccato lo spirito e la forza morale di quelle creature. Anton li aveva seguiti e, pur evitando confronti o paragoni, un poco si compiaceva nel riconoscere in quei ragazzi la stessa indulgente energia dalla quale anche lui era mosso.
Andò quindi da loro. La fatiscente casupola che abitavano non meritava descrizioni: evidenti erano i segni dell’esistenza faticosa e sacrificata che vi si conduceva. Anton non sprecò parole: spiegò ai due ragazzi più grandi che c’era una casa, una vera casa, modesta, non grande ma sufficiente, nella quale potevano trasferirsi. Era vuota, ma sarebbe stata provveduta del necessario per viverci. Ignorò il loro sbalordimento e disse che lo seguissero, che gliela voleva mostrare subito.
Una volta giunti davanti a quella benedetta casa Anton, con un certo sollievo, si cacciò le mani in tasca, ne trasse delle chiavi e le diede al più grande dei due, rassicurandoli che in pochi giorni sarebbe stata accessibile. Tacitò le domande che stavano per rivolgergli e si volse a recuperare la sua strada.
Prima di andarsene volle scusarsi: non si era preoccupato di svuotare e ripulire e nelle camere erano rimaste delle sterpaglie, una cassapanca ed anche il vecchio paio di scarponi che lui usava d’inverno. Questi che calzava ora, leggeri, gli erano stati dati anni prima da uno scrittore, ma quelli là non erano più buoni: “Buttateli voi”, chiese, e mentre si allontanava sentirono che diceva, quasi parlando a se stesso: “Prima dell’inverno qualcuno me ne darà un paio che non porta più.”.
Ancora grazie a Stefan Zweig.
(*) Stefan Zweig: “Un uomo che non si dimentica – Storia vera”, dalla raccolta: “Lettera di una sconosciuta e altri racconti”.